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Nelle varie pagine di “area” LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) dei social e del web, stanno girando delle foto scattate da altrettanti attivisti vicino ai cartelli che indicano l’ingresso in alcune località polacche. Accanto a questi cartelli, ne spunta un altro, giallo, che reca una scritta abbastanza inquietante, in polacco, inglese, francese e russo: Zona libera da LGBT. Ovviamente è scattata l’indignazione, che ha coinvolto anche persone importanti come l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, che ha twittato: “Queste cose mi fanno venire il voltastomaco, la Commissione Europea dovrebbe prendere immediatamente i giusti provvedimenti contro queste pratiche disgustose e contro le autorità polacche che hanno installato questi segnali“.

L’omofobia in Polonia

Ma le cose non stanno esattamente in questo modo: nessuna autorità polacca, locale o nazionale ha installato quei cartelli. Andiamo con ordine. La situazione per la comunità LGBTQIA in Polonia non è certo delle più rosee: si va dai sistematici attacchi alle marce dei Pride alle aggressioni verso gli attivisti, dalle prese di posizione di molti governi locali ad alcune proposte che vorrebbero implementare anche a Varsavia una legge simile all’infausto divieto di “propaganda gay” presente in Russia.

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Per le scorse elezioni europee e nazionali, il partito di destra sovranista al potere in Polonia, Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e giustizia; Pis) ha condotto una violenta campagna contro le minoranze sessuali, facendo uso delle consuete accuse di praticare la pedofilia, di insegnare a bambini sempre più piccoli come masturbarsi e di voler rovesciare la famiglia polacca usando fiumi di soldi provenienti dal solito, eterno spauracchio: il filantropo miliardario George Soros. L’estate scorsa un giornale molto vicino al PiS, Gazeta Polska, aveva distribuito degli adesivi con la scritta “Strefa Wolna Od LGBT” (Zona libera da LGBT, appunto) e una croce nera che copriva l’arcobaleno. L’iniziativa era stata bersagliata di critiche provenienti sia dall’estero che dall’interno del paese.

Una denuncia artistica

Dunque: chi ha messo i famosi cartelli all’ingresso delle città? Li ha messi Bartek Staszewski, un fotografo e attivista per i diritti civili. “Mi è venuta l’idea lo scorso agostodicequando si è cominciato a parlare di ‘zone libere da LGBT’. Sono rimasto scandalizzato e ho voluto chiamare le cose con il loro nome, quindi ho fatto fare 36 segnali in stile militare con quella scritta in quattro lingue. I politici locali parlano di ideologia LGBT da bandire, ma non c’è nessuna ideologia. Ci sono le persone, la comunità LGBT e il potere locale che la combatte, ma non capiscono [o forse non vogliono capire; ndr] che stanno parlando dei loro vicini di casa e che vogliono impedire che vivano in questi posti“.

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Lo scopo di questo progetto “è mostrare che le persone non eteronormative esistono non soltanto nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri. Spero che questo possa interessare un’opinione pubblica più ampia” e non limitata a quella delle piccole località, dove anche i politici non hanno chiara la gravità delle risoluzioni che fanno votare alle assemblee: “Alcuni non se ne rendono neanche conto, per loro LGBT è il nome di qualcosa che ‘minaccia la famiglia e i bambini’. C’è un leader, si copia-incolla la risoluzione ed è fatta“. E nessuno, dai cittadini in avanti, “riesce a fare un’analogia con quello che accadde nel 1938-39, quando le discriminazioni di questo tipo erano rivolte verso gli ebrei“.

Secondo Staszewski, soltanto alcuni anni fa una cosa del genere sarebbe stata assolutamente inimmaginabile, “mentre adesso ci sono state persone che hanno creduto possibile che le autorità polacche abbiano preso un provvedimento simile” a causa della direzione che ha preso la politica in Polonia.

[Errata corrige: in una prima versione dell’articolo era indicato il tedesco, invece del francese, tra le lingue utilizzate nei cartelli.]

Alessandro Garzi
©2020 Il Grande Colibrì
immagine: i cartelli di Bartek Staszewski

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